Ingorghi stradali, disoccupazione, ecc., problemi vecchi di 2000 anni…

Pubblicato su “Specchio”, settimanale de “La Stampa”, n. 46, novembre 1996 – copyright©DanilaComastriMontanari.

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Pensando alla Roma dei Cesari, la nostra fantasia, alimentata dall’arte neoclassica, dai plastici dei musei e dai Kolossal hollywoodiani, corre subito al candore del marmo, che era presente, sì, ma soltanto come uno dei tanti materiali di costruzione, e non certo il più diffuso. Roma, invece, era una città di mattoni, a volte nudi, più spesso intonacati in quelle tinte vivaci che gli architetti contemporanei usano con tanta circospezione. Si trattava di una grande metropoli, modernissima per alcuni versi, ma per altri più simile alle capitali dei paesi in via di sviluppo che alle città europee del ventesimo secolo: al tempo della sua massima espansione ci vivevano un milione e mezzo di abitanti, di cui soltanto un terzo donne, in quanto la manodopera servile era costituita in gran parte da schiavi maschi, mentre l’esposizione dei bambini colpiva maggiormente le femmine. Ovviamente non tutti, di quel milione e mezzo, abitavano in ville sontuose dalle pareti affrescate, con legioni di schiavi a servirli. Vediamo dunque come viveva un cittadino qualunque, libero ma di mezzi modesti, in quell’agglomerato caotico e sovrappopolato che era l’Urbe padrona del mondo. I romani si alzavano all’alba, com’è scontato in ogni società che ancora non conosca la luce elettrica. Dopo una sommaria  abluzione, sbocconcellavano qualcosa, un po’ di pane o gli avanzi della cena  precedente, poi si recavano al lavoro, a meno che non fosse giorno di festa, e di feste ce n’erano parecchie, perchè se mancava il giorno di riposo settimanale, le celebrazioni civili e religiose uguagliavano quasi le giornate lavorative. Il primo problema che il nostro romano – lo chiameremo Gaio, il nome più diffuso a quei tempi – doveva affrontare, era quello del traffico.  Attraversare l’Urbe da un capo all’altro non era facile, anche se fin da Giulio Cesare tutta la città era isola pedonale durante le ore diurne, il che rendeva quelle notturne ben poco riposanti, animate com’erano dal rumore continuo dei carri di merci. Non che di giorno la viabilità fosse migliore: la gente era tanta, tantissima, le bancarelle intasavano i vicoli angusti, le carriole tirate a mano si rovesciavano provocando ingorghi, e a poco valevano i frequenti passaggi pedonali sopraelevati che attraversavano la strada da un marciapiede all’altro. I grandi ricchi venivano trasportati in lettiga, preceduti da schiavi che sgombravano il passo alla vettura gridando con voce stentorea il nome dell’augusto passeggero; altri, meno pretenziosi, si accontentavano di un palanchino; i più, come il nostro Gaio, andavano a piedi.  Artigiani e commercianti tuttavia, non dovevano fare molta strada per recarsi a bottega, perchè in genere alloggiavano su un soppalco del negozio stesso,o nel cubicolo retrostante. Le grandi domus a un piano solo, con atrio, tabilino, triclini, peristili e numerose esedre – di cui oggi vediamo un esempio nelle case pompeiane – a Roma erano infatti rarissime, e appannaggio dei grandi privilegiati. Il grosso dei quiriti viveva in affitto nelle grandi insulae a cinque o sei piani tanto simili ai nostri palazzi condominiali, in bugigattoli dove le pareti divisorie consistevano in fragili tramezzi coperti da una frettolosa mano di intonaco. La speculazione edilizia era dilagante – un sottoscala al centro dell’Urbe costava quanto una villetta in campagna – e ben pochi osservavano le norme imperiali sulla sicurezza, così queste insulae smisurate crollavano con preoccupante frequenza. I fortunati abitavano al pianterreno, che, buio a parte, aveva molti vantaggi, primo tra tutti l’allacciamento all’acqua corrente, naturalmente previo pagamento della tassa relativa. Qui, negli atri rischiarati da torce e candelabri, i potenti ricevevano la folla dei clientes – dai quali deriva la nostra locuzione “clientela politica” – che, paludati nelle toga di gala presa a prestito, recavano omaggio al patrono in cambio della sportula quotidiana di cibo, unica fonte di sostentamento per migliaia e migliaia di disoccupati. Sì, perchè con la concorrenza spietata di una manodopera servile a costo irrisorio, il problema della disoccupazione era ancor più grave di oggi, tanto che alcuni rinunciavano ai loro diritti di cittadini per vendersi come schiavi e vivere al sicuro sotto la protezione di un padrone. Nell’insula, dunque, più si saliva in alto, più crescevano i disagi: i gradini di pietra per accedere ai piani superiori erano un lusso, mentre più spesso ci si doveva arrampicare sulle fragili balconate di legno della facciata. Nel sottotetto pioveva dentro, e gli inquilini erano costretti a sfinirsi per portare su l’acqua potabile, o liberarsi da rifiuti ed escrementi. Infatti, malgrado Roma abbondasse di latrine pubbliche a basso prezzo – eleganti stanzette con ampi sedili di pietra a sei posti, dove l’utente ingannava il tempo chiacchierando con gli amici – non tutti ne facevano uso, e i più attendevano l’oscurità per vuotare dalla finestra i vasi da notti, senza troppo rispetto per gli eventuali passanti, o sceglievano di liberarsi nei grandi ziri di coccio ritirati ogni sera dai fulloni che usavano i prodotti della minzione per tingere e detergere le stoffe. Se a tutto questo si aggiunge che gli appartamenti d’affitto non erano nemmeno dotati di focolare, si capisce come la maggior parte dei romani preferisse stare fuori da mane a sera, nei fori, in strada o sotto gli eleganti portici costruiti da sponsor in cerca di notorietà, e avesse la moderna abitudine di mangiare al bar, che allora si chiamava thermopolium, e consisteva in una vera e propria tavola calda dove per pochi assi ci si faceva servire al banco una zuppa bollente, pane e salsiccia o una pizza di erbe, oltre all’immancabile vino allungato. Per i più schizzinosi esistevano le popinae e le cauponae, in cui si poteva mangiare seduti, e nel menu era compresa la cameriera.  Ovviamente, in una città piena di uomini soli, la prostituzione dilagava, dai postriboli autorizzati a quelli clandestini, dalle samberghe dove donne male in arnese attendevano i clienti di più facile contentatura, alle case sfarzose delle grandi etere, frequentate dal fior fiore dell’aristocrazia. C’erano anche bordelli per gusti particolari, come quelli dell’ Esquilino, diventati di gran moda da quando l’emancipazione della donna spingeva molti romani, abituati a farla da padroni, tra le braccia di accondiscendenti schiavetti orientali. Il nostro Gaio trascorreva dunque la mattina in bottega, al foro, oppure nelle molte basiliche che fungevano da tribunali, sempre affollate, perchè i litigiosissimi quiriti erano pronti a far causa per un nonnulla. Nel pomeriggio invece la vita sociale si spostava alle terme, dove nessun abitante di Roma, ricco o povero, libero o schiavo, avrebbe mai rinunciato ad andare. Il bagno era pressochè gratuito, in quanto molti degli stabilimenti erano donati da filantropi desiderosi di perpetuare il loro nome o di farsi propaganda in vista delle elezioni. Ma, oltre alla piscina comune, erano disponibili anche saune, palestre, biblioteche, ristoranti, sale di massaggi e di estetica, nonchè svariati negozi. Lì i quiriti ascoltavano conferenze, corteggiavano signore, tessevano intrighi, decidevano affari, carriere, matrimoni. Il tutto mentre si facevano raschiare con lo strigile dai balneatores – il sapone non era ancora stato inventato – in attesa del tuffo nella vasca fredda e del massaggio corroborante. Così nell’Urbe, dove ancora non esisteva alcuna coscienza ecologica, c’era un consumo d’acqua mai uguagliato nella storia: almeno tre volte quello attuale! Durante il bagno, cominciava la caccia all’invito a cena. Non sempre però l’anfitrione osservava le regole della buona creanza, e poteva accadere che al nostro Gaio venisse ammanita una misera coscia di gallina, mentre vedeva sfilare alla mensa d’onore vulve di scrofa e lingue di fenicottero. D’altra parte era raro che un povero gustasse la carne a casa sua, salvo quella, un po’ selvatica, degli animali scannati nell’arena: l’alimentazione comune consisteva in pane, legumi e polenta di farro, magari insaporita da un po’ di moretum, il profumatissimo formaggio all’aglio la cui ricetta risaliva agli etruschi. La moglie di Gaio, dal canto suo, non se ne stava affatto a casa a filar la lana come le sue antenate. Andava anche lei alle terme – in quelle riservate alle donne se era molto pudibonda, più spesso in quelle miste, con grande scandalo dei benpensanti – e non rinunciava a farsi bella nemmeno con pochi soldi in tasca: di ornamenti femminili a Roma ce n’erano da tutti i prezzi, dalle favolose armille di oro e smeraldi esposte dai gioiellieri del Clivius Argentarius, ai ninnoli di metallo fatti in serie, in vendita sulle bancarelle, e anche la più modesta delle schiave possedeva una collana, un anellino, un po’ di bistro per sottolineare gli occhi. Con qualche asse ci si poteva far tingere i capelli di rosso con la schiuma batava, o schiarirli col sapone di Marsiglia, sognando di acquistare un giorno uno dei toupet di capelli indiani in vendita presso il tempio di Ercole, o addirittura un’elegante parrucca ricavata dalle chiome biondissime delle barbare germane. Parrucchiere ed estetiste prosperavano, oltre ovviamente ai tonsores che sbarbavano quotidianamente le guance dei quiriti, operazione non sempre indolore, data l’inadeguatezza di molti rasoi. Ma nessun romano degno di questo nome, con l’eccezione di qualche strambo filosofo, si sarebbe mai fatto vedere in giro con la barba lunga: l’orrore per i peli superflui era tale che ci si preoccupava di toglierli accuratamente anche dalle narici, dalle orecchie e a volte persino dalle braccia e dalle gambe.  La pulizia, la cura del corpo a tutti i livelli, era insomma un valore irrinunciabile, e gli schiavi in questo, non erano da meno dei liberi: quale dominus, infatti, avrebbe mai tollerato in casa sua dei servitori sporchi e trascurati? Nell’Urbe ci si lavava in continuazione, e ai moralisti scandalizzati si usava rispondere con l’adagio: “I BAGNI, IL VINO E VENERE FORSE ACCORCIANO LA VITA, MA ALLORA CHE VIVI A FARE?”. Caduto l’Impero, per quindici secoli non ci si lavò quasi più. 

Da http://www.melegnano.net/curios10.htm

Però…  W I ROMANI!!! Su per giù gli stessi problemi e le stesse ansie…! Se in 2000 anni ancora non sono stati risolti, che ci preoccupiamo a fare?? 

Tutto ciò mi “rincuora” un po’… E’ proprio vero che tutto il mondo (anche quello antico) è paese!

Stati d’animo – aforismi

Stato d’animo odierno: tristezza.

Spesso è necessario riflettere sul perché siamo allegri; ma sappiamo sempre perché siamo tristi.
Karl Kraus, Detti e contraddetti (Pro domo et mundo, Di notte), Adelphi, Milano 1992, p. 178 –

Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo.
Blaise Pascal –

La tristezza ci aiuta quindi a cercare con calma il modo di ripartire, di rilanciarsi sul viale della vita. Ci permette di affrontare le nuove difficoltà con uno sguardo piú profondo, che va all’essenza delle cose, che non si ferma all’apparenza. È importante tenere sempre un legame solido con la tristezza, che ci accompagna come un cane fedele, che ci guida nei momenti difficili.
E allora la tristezza ci regalerà la piú bella delle cose : essere finalmente capaci di godersi i momenti belli e felici in modo totale.
Cristoph Baker, da Elogio della dolcezza. –

Ma che film la vita…

… E’ una canzone bellissima dei Nomadi, una delle ultime cantate dal grande Augusto Daolio, musicista, poeta, scrittore…

Il testo è davvero stupendo, ne riporto solo un pezzettino ma andrebbe letto tutto.

Ma che film la vita tutta una sorpresa

storia infinita a ritmo serrato

da stare senza fiato.

Ma che film la vita tutta una sorpresa

attore, spettatore tra gioia e dolore

fra il buio ed il colore.

Ma perché sto scrivendo queste cose proprio ora? Non lo so, forse perché sono un po’ triste o forse perché stavo pensando che ultimamente ci sono stati tanti cambiamenti nella mia vita. Alcuni positivi, altri meno… Una mia amica (che è un po’ una streghetta…) sostiene che i cambiamenti sono SEMPRE positivi e che nei tarocchi una delle carte peggiori che potrebbe capitarti è L’Appeso che solitamente rappresenta la staticità e l’incapacità di prendere delle decisioni, è una pausa della fase evolutiva dell’uomo. Non ho mai avuto a che fare con i tarocchi e non ci credo granché, ma è comunque un ambito interessante.

Resta il fatto che i cambiamenti mi hanno sempre un po’ spaventata, soprattutto se sono troppo repentini e frequenti… In effetti, non mi sento mai completamente pronta e/o adeguata e poi sono una persona che cerca sempre di programmare tutto e un cambiamento è un’anomalia nel “sistema”!  A livello personale, bisogna cominciare a pensare ad una casa e ad una vita a 2 o a 3, ma da questo punto di vista spero di pianificare al meglio e che i cambiamenti non siano troppo repentini (vero Patrick? … sperando di non sentirci figli o Peter Pan troppo a lungo…!). Come ciò che sta avvenendo nel lavoro, neanche il tempo di ambientarmi e già sta cambiando tutto, il mio capo non sarà più il mio capo o quanto meno andrà a fare altro e c’è un grande fermento in atto. Detto in poche parole? Cambierà tutto! Avrei preferito la staticità in questo caso, alla faccia dell’appeso… E vorrei fermare il tempo anche sotto altri punti di vista (non moltissimi in verità) ma purtroppo non si può.

Cercherò di imparare dai Nomadi… E dall’appeso!

Effettivamente, è molto meglio Il Giudizio… Rappresenta il cambiamento, notizie o eventi inattesi che apporteranno un’evoluzione, una trasformazione a tutti i livelli. E’ l’entusiasmo di chi vuole reagire, la carta del Giudizio porta il risveglio della spiritualità, solo chi ascolta il richiamo dello spirito può far rinascere se stesso.

Che sia di buon augurio!