Assassini, stupratori, pedofili, criminali… Da dove vengono?

Se c’è una cosa che non sopporto è sentire SEMPRE la nazionalità del criminale quand’è straniero e MAI quando si tratta di italiani, ma anche di francesi o tedeschi o, più in generale, europei. Non potevo quindi non essere in completa sintonia con quest’articolo riportato da TGCOM.

Anche i crimini sono razzisti
“La rumena” diventa già una condanna

Dal Foglio di giovedì 3 maggio

La volta che Veltroni mandò un messaggio commosso alla comunità fiilippina, peccato però che l’eroica babysitter morta per i bambini era honduregna, è il capolavoro degli scivoloni cui può condurre la correttezza politica, che nasconde sempre una punta inconsapevole di razzismo vero: la tata è sempre filippina. Ma il caso di Vanessa Russo, la ragazza uccisa nella metropolitana di Roma, riporta bruscamente l’orrore dello stereotipo dall’altra parte del pendolo. “La rumena”, le “rumene”. Basta l’indicazione geografica e, da violenza metropolitana, il delitto diventa subito faccenda etnica, emergenza razziale. I giornali non soltanto titolano “Omicidio volontario per la rumena”, ma addirittura nei trafiletti, il complice diventa “l’argentino che le ospitava”.

Velocemente, dal titolo si trapassa al subbuglio sociale: ieri è toccato a Piero Marrazzo, presidente del Lazio, incassare non si sa bene perché i “vergognatevi”, gli “assassini”, gli “ecco i servizi che ci date”. 0 meglio lo si sa benissimo, il perché, e sarebbe ingenuo negare che esista un problema perlomeno di “delitto percepito”, come l’effetto serra e la recessione. Però della strage di Erba non si è mai detto “i massacratori comaschi”; però non si è mai scritto della Franzoni “l’immigrata in Val d’Aosta”. Provassimo a scrivere: ucciso da un crotonese, stuprata da un forlivese (e i casi ci sono, eccome se ce ne sono). Invece uno dei titoli più belli è del Tempo: “Vanessa uccisa dalla straniera per futili motivi”. In quello “straniera” lasciato lì, inevaso, è il succo di tutto. La sindrome etnica preesiste al fatto criminoso: Repubblica, nelle prime immagini della videosorveglianza, vede una donna bruna, che sembra “una sudamericana”. E perché non “una mediterranea”?

L’effetto spiazzante svelerebbe la dubbia fondatezza della percezione etnica del crimine. Il rapporto Eures-Ansa del 2005 sugli omicidi volontari in Italia segnala che quelli compiuti da italiani sono il 72 per cento, mentre la quota stranieri è al 27 per cento. Ma si fa presto a confondere la cronaca nera con l’emergenza sociale, e peggio l’ordine pubblico con la paura dello straniero, xenofobia si dice. Il vizio linguistico diventa vizio sociale e poi vizietto politico (Borghezio che accusa il governo per non aver fermato i rumeni nell’Unione europea e D’Alema per cui “la rumena è entrata per colpa della Bossi-Fini” sono l’anello più basso di una preoccupante catena involutiva). Da qui la modesta proposta di affibbiare, almeno in occhiello, almeno nel sommario, la specifica toponomastica al reprobo, all’assassino, all’ombrellante di turno. Una specie di doc, una denominazione d’origine criminale. Grazie a cui finalmente, oltre ai San Marzano, avremo pure i killer dell’Agro Sarnese-Nocerino e l’effervescente sgozzatore di Valdobbiadene. E la ferocia del delitto tornerà a essere semplicemente umana, tratto comune della specie. Senza frontiere.

E BASTA con ste storie, un criminale è un criminale da qualunche posto del mondo venga!!!

TFR… Bisogna scegliere!!

Patrick: 

Allora… orami tutti lo sanno… bisognerà scegliere dove e come investire il proprio TFR (Trattamento Fine Rapporto) la vecchia liquidazione insomma!

Ognuno dice la sua e io non ho ancora idea chiara di cosa fare, spero con questo post di riuscire a schiarirmi MEGLIO le idee, perchè non so se lo sapete, ma su questo siamo tutti d’accordo, quando noi giovani andremo in pensione, riceveremo solo il 35% del nostro ultimo stipendio…    Bella roba!

Quindi bisognerebbe capire come far fruttare al meglio questi soldi. Ovviamente tutti invitano a spostarli verso le proprie casse. La cosa che mi preoccupa di più è di lasciarli all’Inps (Non vorrei un altro caso Parmalat o Cirio, o tutte le varie menate che sono successe) col rischio che magari non ti ritrovi nemmeno più quel misero 35%…

Ci sono poi condizioni diverse per tutti (età, impiego pubblico o privato, numero di dipendenti dell’azienza, categoria di appartenenza, mesi o anni alla pensione  ,ecc… ) Comunque penso che la maggior parte delle persone “preoccupate” siano quei dipendenti privati con meno di 50 dipendenti perchè per i dipendenti pubblici tutto cambia.

Ci sono quindi diversi fondi su cui investire, alcuni aperti che sono gestiti direttamente da banche e società finanziarie dove di solito rendono di più, ma il rischio che vada tutto a ramengo è maggiore. Al contrario, i fondi chiusi nascono da accordi tra imprese e sindacato e investono il denaro con cautela, dando garanzia che il capitale sarà restituito per intero ai lavoratori…

Una di queste associazioni a fondo chiuso per la Valle d’Aosta è la Fopadiva, (qui) il loro sito. A tal proposito vorrei che prendesse parola il Nostro caro Amico Gaetano… (Gae vedi di muoverti e di essere convincente altrimenti ti faccio licenziare eh! )

Scherzi a parte, sono orientato verso questa idea, ma visto che ho ancora tempo, preferisco aspettare, anche perchè, UNA VOLTA SCELTO DOVE FAR ANDARE IL CAPITALE, NON SI POTRA’ MAI PIU’ SPOSTARE!!!

Allego due paginette di Donna Moderna che mi ha dato mia mamma…

PS: aprite e cliccate poi sul simbolo in basso a destra

Pagina1, pagina2

 

Questo il riepilogo sul sito www.governo.it

10 motivi per abolire la pena di morte

L’ex dittatore iracheno Saddam Hussein è stato giustiziato (per impiccagione) pochi giorni fa. Le reazioni dei leader politici di tutto il mondo sono state molteplici. C’è anche chi (come Bush) s’è rallegrato per la condanna e la conseguente esecuzione, a parte che mi chiedo come la morte di qualcuno possa provocare allegria, ma tant’è… Fatto sta che molte persone, sulla base di premesse errate o fuorvianti, sono convinte che la pena di morte sia utile o necessaria per combattere certi reati e per dare il “buon esempio”. Niente di più sbagliato. Per certi crimini, le uniche pene eque sono l’ergastolo (e per chi dice che la prigione a vita è una passeggiata, consiglio una visita nelle carceri per farsi un’idea più corrispondente alla realtà e, soprattutto, scevra da pregiudizi…), il risarcire gli eredi (anche se niente potrà riportare in vita la vittima…) e, in certi casi, i lavori socialmente utili. La pena di morte non serve a NULLA.

Ecco perché.

1)La pena di morte non serve come deterrente per i crimini.

In Giappone, dove la pena di morte è prevista dalla legge, tra il novembre del 1989 ed il marzo del 1993 le esecuzioni vennero sospese perchè i ministri di giustizia dell’epoca erano contrari alla pena di morte: durante la moratoria, il tasso di criminalità non aumentò, anzi diminuì.

L’argomento della deterrenza è quello più frequentemente chiamato in causa: condannare a morte un trasgressore dissuaderebbe altre persone dal commettere lo stesso reato. Tale argomento non è tuttavia valido, per diversi motivi.

Nel caso, per esempio, del reato di omicidio, sarebbe difficile affermare che tutti o gran parte degli omicidi vengano commessi dai colpevoli dopo averne calcolato le conseguenze. Molto spesso gli omicidi avvengono in momenti di particolare ira oppure sotto l’effetto di droghe o di alcool oppure ancora in momenti di panico. In nessuno di questi casi si può pensare che il timore della pena di morte possa agire da deterrente.

Inoltre la tesi della deterrenza non è assolutamente confermata dai fatti. Se infatti la pena di morte fosse un deterrente si dovrebbe registrare nei paesi mantenitori un continuo calo dei reati punibili con la morte e i paesi che mantengono la pena di morte dovrebbero avere un tasso di criminalità minore rispetto ai paesi abolizionisti. Nessuno studio è però mai riuscito a dimostrare queste affermazioni e a mettere in relazione la pena di morte con il tasso di criminalità.

Un’analisi delle percentuali di omicidi in paesi abolizionisti e mantenitori ha dimostrato che i paesi mantenitori hanno in genere una percentuale maggiore. Tale analisi prendeva in considerazione i cinque paesi abolizionisti ed i cinque paesi mantenitori con il maggior numero di omicidi. Confrontando i dati, l’analisi conferma che nei cinque paesi abolizionisti il tasso più alto di omicidi era 11.6 per 100.000 persone, mentre nei paesi mantenitori il tasso più elevato era 41.6 per 100.000 persone.

Vi sono inoltre dati sulla criminalità di vari paesi che dimostrano come l’abolizione della pena di morte non comporti alcun aumento della criminalità.

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2) L’applicazione delle norme giuridiche è spesso soggetta a errori umani dolosi o involontari.

La pena di morte non colpisce solo i colpevoli, ma anche, forse più spesso di quanto si immagini, persone innocenti.

Uno studio dello Stanford Law Review ha documentato in questo secolo 350 casi di condannati a morte negli Stati Uniti, in seguito riconosciuti innocenti. Di questi 25 erano già stati giustiziati, mentre altri avevano già trascorso decenni in prigione. 55 dei 350 casi risalgono agli anni ’70, 20 risalgono agli anni compresi tra il 1980 ed il 1985.

In Giappone, Sakae Menda fu condannato a morte nel 1950 per un omicidio commesso nel 1948. 33 anni dopo egli fu riconosciuto innocente e rilasciato, dopo aver vissuto per oltre trent’anni nell’attesa dell’esecuzione.

A Taiwan nel febbraio 1982 fu riconosciuto innocente e rilasciato un uomo di 74 anni, condannato per un omicidio commesso nel 1972.

Numerosi sono anche i casi in cui incompetenza e corruzione hanno causato condanne a morte di innocenti. Tra questi il caso di Vladimir Toisev, abitante di un villaggio della Repubblica di Bielorussia, condannato a morte per omicidio nel 1970. Passò diciotto mesi prima di ricevere la commutazione della condanna, ma fu rilasciato solo nel 1987. Nel 1987 l’organo di stampa Znamya Yunosti affermò che gli investigatori avevano strappato una confessione a Toisev nel corso di interrogatori notturni e avevano picchiato suo fratello per poter ottenere prove false che avvalorassero la confessione. Quando fu scoperto il vero colpevole, gli investigatori tennero segrete le informazioni per nascondere l’errore commesso.

Nel 2000 il Governatore dell’Illinois ha decretato una moratoria a tempo indeterminato atta a stabilire l’iniquità di alcuni processi durante i quali alcuni detenuti innocenti erano stati condannati alla pena capitale e molti stati nel mondo negli ultimi 2 anni stanno seguendo quest’esempio.

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3) La pena di morte è un’arma troppo potente in mano a governi sbagliati.

Può essere sfruttata dal governo per eliminare personaggi politicamente o religiosamente scomodi, alterando persino il concetto di gravità di certi atti. E’ quello che sta attualmente accadendo in Cina dove si muore non solo per aver commesso crimini gravi, ma anche per il semplice fatto di opporsi al regime. Nel 1999 il 60% circa delle esecuzioni mondiali sono avvenute proprio in territorio cinese.

I reati capitali sono 68, tra cui omicidio, stupro, rapina, furto, traffico di droga, prostituzione, evasione delle tasse e, addirittura, stampa o esposizione di materiale pornografico. Particolarmente raccapricciante è il fatto che spesso le esecuzioni vengono fatte in luoghi pubblici e i condannati sono costretti a tenere al collo un cartello con il loro nome ed il reato per il quale vengono giustiziati.

Le Associazioni umanitarie, inoltre, denunciano il fatto che spesso ai condannati, una volta giustiziati, vengono espiantati gli organi senza il loro permesso; si ritiene che alcune condanne vengano eseguite in quanto sono richiesti organi per i trapianti!

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4) L’applicazione della pena di morte non incentiva la ricerca di sistemi preventivi.

Quando viene applicata la pena di morte, la gente prova quasi un sentimento di soddisfazione, quasi che in questo modo il crimine commesso fosse ripagato, espiato, dimenticando in realtà che la vittima ha subito un’ingiustizia che non potrà mai essere ripagata. Tuttavia la gente è come soddisfatta. Lo Stato si mostra così “giusto” ed efficiente contro il crimine. In questo modo si corre il rischio che lo Stato possa sentirsi dispensato dal ricercare una soluzione che prevenga il crimine stesso.

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5) Il diritto alla vita è un principio fondamentale su cui si basa la nostra società.

Come nessun uomo ha il diritto di uccidere un suo simile per qualsiasi motivo – il diritto alla vita è un principio fondamentale su cui si basa la nostra società – così lo Stato, che agisce razionalmente, non spinto dall’emozione del momento, e in quanto garante della giustizia, non deve mettersi sullo stesso piano di chi si macchia del più orribile dei crimini: l’omicidio.

Così facendo si fornirebbe a tutti un esempio di atrocità compiuto dalla legge stessa, mentre essa è stata creata proprio per la tutela dei diritti umani e quindi per quello della vita.

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6) Lo Stato si comporterebbe in modo criminale come il criminale stesso.

Le leggi, infatti, moderatrici della condotta degli uomini e espressioni della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commetterebbero uno esse medesime e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinerebbero un pubblico assassinio.

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7) La pena di morte è discriminatoria.

La pena di morte è spesso usata in maniera discriminatoria nei confronti di minoranze razziali, di persone povere e scarsamente istruite e in alcuni casi può venire usata come arma contro oppositori politici.

Un esempio di come la pena di morte sia usata in maniera iniqua nei confronti delle minoranze si ha negli Stati Uniti. Studi effettuati recentemente sulle condanne a morte comminate in vari stati degli USA hanno dimostrato che l’accusa ha chiesto in media la pena di morte nel 50% dei casi in cui l’accusato era nero e la vittima bianca e solo nel 28% dei casi in cui sia l’accusato che la vittima erano neri.

E’ inoltre dimostrato che la stragrande maggioranza di coloro che hanno subito la pena di morte, era gente povera. Il ricco non subirà mai la pena di morte. Il ricco può pagarsi qualsiasi avvocato, può pagare la propria libertà.

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8) La pena di morte non ristabilisce alcun equilibrio.

I parenti, gli amici e i conoscenti della/e vittime non si sentono sufficientemente ripagati dalla morte dell’assassino. Lo sarebbero se ciò servisse a riportare in vita la vittima, se la morte dell’assassino servisse veramente a ristabilire una situazione di equità.

In realtà se il ladro commette il furto, la restituzione del denaro può servire a ristabilire una situazione di equità e il carcere avrebbe la funzione sia come deterrente, sia per la riabilitazione stessa del ladro. Purtroppo l’omicidio, qualunque siano le motivazioni, è talmente grave proprio perchè innesca un meccanismo di non ritorno. Nessun atto potrà mai riportare indietro una persona morta, solo un miracolo.

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9) Lo Stato è corresponsabile dei crimini commessi.

Consideriamo il fatto che la personalità di ogni individuo è profondamente segnata dall’ambiente circostante, dagli eventi che si trova costretto ad affrontare e dagli eventuali disturbi mentali che lo affliggono. Come può quindi la società ritenere la sua morte indispensabile pur essendo, in un certo senso, corresponsabile di ciò che egli ha compiuto? Si arriva davvero al paradosso.

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10) Pena di morte = risparmio?

Una delle argomentazioni a favore della pena di morte si basa sul fatto che è meno costoso uccidere i colpevoli piuttosto che tenerli in carcere. Tuttavia alcuni studi svolti in Canada e negli Stati Uniti dimostrano che l’applicazione della pena di morte è più costosa del carcere a vita.

In media il giudizio capitale e gli appelli di primo grado costerebbero ai contribuenti circa 1.8 milioni di dollari, due volte di più di quanto costi mantenere una persona in carcere a vita.

Uno studio condotto in Florida nel 1988 sosteneva che i contribuenti pagano oltre 3.1 milioni di dollari per ogni esecuzione.

Fonte: Coalizione italiana contro la pena di morte Da consultare anche il sito Nessuno tocchi Caino

Può bastare?? Senza considerare il fatto che il Medioevo è finito da un pezzo… Ma purtroppo a volte l’ignoranza (non in senso offensivo, significa semplicemente ignorare ovvero non conoscere) è dura da combattere… Tuttavia, in certi casi, basterebbe semplicemente documentarsi un filino di più prima di esprimere un’opinione. O no?

Internet e responsabilità penali

Patrick mi ha segnalato un articolo molto interessante. Lo riporto, aggiungendovi qualche mio commento finale!

Fonte: Margherita on line

Google: internet e responsabilità legali
Roma, 05-12-2006

di Alessandro Gilioli

Così come l’hanno messa i magistrati, l’accusa è un po’ ridicola: ‘Concorso in diffamazione per omesso controllo’. Come se fosse possibile controllare preventivamente le migliaia di clip che ogni giorno vengono caricati da privati cybernauti su siti come Google Video o YouTube. Altrettanto comico il fatto che l’apertura dell’indagine su David Drummond e George De Los Reyes (gli amministratori di Google Italia) sia stata accompagnata da una perquisizione della Finanza nella sede milanese dell’azienda, in piazzale Biancamano: quasi fosse possibile trovarvi lì, fisicamente, un corpo di reato per sua natura immateriale qual è un file digitale, già ovunque da diversi giorni.

Ma non è colpa di Francesco Cajani e Alfredo Robledo – i pm che indagano sul video del ragazzo disabile di Torino picchiato, filmato ed esposto su Google Video – se l’articolo del codice penale in base al quale si sono mossi (‘Reati commessi col mezzo della stampa periodica’) è stato modificato l’ultima volta nel 1958, quando Internet era ancora nella mente di Dio. Il problema semmai è che nel frattempo il mondo della comunicazione è un po’ cambiato e negli ultimi mesi ancora di più. Perché è esploso il fenomeno del cosiddetto Internet 2, cioè la Rete fatta con i contenuti degli utenti: blog, videoblog, wiki, e soprattutto siti che raccolgono clip, spesso girati con i telefonini, spediti e caricati da privati.

La rivoluzione in corso, è ovvio, trascende l’episodio di bullismo torinese (c’è il sesso di gruppo su teenager ad Ancona, c’è il tizio autofilmatosi mentre andava come un pazzo in moto…) e pone una serie di interrogativi. Tipo: di chi è la responsabilità, morale e legale, quando chiunque può immettere sul Web i propri contenuti fai-da-te? Del sito che fornisce gli strumenti tecnici per farlo o solo di chi ha prodotto e ‘uploadato’ in Rete il file? E ancora: questa possibilità di produrre video e di renderli pubblici è un fatto socialmente positivo (perché dà visibilità e trasparenza a eventi che altrimenti resterebbero nascosti) o al contrario è negativo perché provoca esibizionismo ed emulazione?

La questione legale in Italia è in una sorta di limbo, in attesa che il Parlamento produca una norma. Nel 2001 si è deciso di assimilare i direttori dei siti Web a quelli delle testate tradizionali, ma (per forza di cose) senza affrontare il problema degli ‘user generated contents’, i contenuti generati dagli utenti. Una recente sentenza del tribunale di Aosta ha equiparato ai direttori anche i titolari di blog, ma che succede se la diffamazione non viene attuata dal blogger, bensì da un internauta che manda i suoi commenti (pubblicati automaticamente nel blog stesso)?
Bel problema, a cui in Italia finora non ha risposto nessuno. Lo ha fatto invece la Corte Suprema della California, che ha assolto una blogger di San Diego (e con lei il suo Internet provider) per una diffamazione in un commento a un post: la responsabilità penale, ha sancito la corte, è solo di chi immette i contenuti, e non di chi offre i mezzi per la loro pubblicazione.

Una posizione condivisa dai maggiori studiosi italiani di nuovi media, come Giuseppe Granieri, autore di ‘Blog generation’ e ‘La società digitale’ (Laterza): “Non ha senso perseguire chi fornisce gli strumenti per la distribuzione, tipo YouTube”, sostiene Granieri: “Se impedissimo preventivamente la pubblicazione di video che contengono reati, probabilmente non avremmo mai notizia dei reati stessi: basta pensare che né il ragazzo disabile né le studentesse di Ancona avevano fatto denuncia. è sbagliato imputare il reato al mezzo, quasi che non siano le percosse a essere gravi, ma il fatto che grazie a un video ne abbiamo notizia…”.

Sulla stessa linea quasi tutti i pareri di blogger e appassionati di Web apparsi in Rete in questi giorni: chi, come la presidente di Iab Italia Layla Pavone, parla di “caccia alle streghe e ritorno al medioevo’; chi – sul forum di Mac Village – segnala ironicamente alle autorità dozzine di altri video da censurare, fornendo i relativi link (“Mi raccomando, eliminateli subito!”); chi infine si diverte a ‘uploadare’ su YouTube falsi video di bullismo girati in casa con gli amici. Il partito dell’antiproibizionismo elettronico assoluto, però, piace poco agli editori tradizionali.

I quali si chiedono: perché mai il proprietario di un sito Web su cui passa di tutto dev’essere imperseguibile, mentre le testate ‘normali’ pagano risarcimenti milionari? Siti come YouTube o Google Video ormai fanno miliardi con questi clip, ne accettino anche eventuali conseguenze legali. Un’asimmetria messa in luce tra gli altri dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Fioroni, secondo il quale “il principio di responsabilità non può essere declinato in modo diverso a seconda del mezzo su cui viaggia un reato”. E anche il garante della privacy Franco Pizzetti non accetta l’idea di una Rete senza tetto né legge.

Ma, se si amplia un po’ la prospettiva, dalla questione legale si passa al problema, assai più vasto, della ‘valenza sociale’ della Rete fatta dagli utenti. È un bene o un male, per la libertà comune e la crescita collettiva, che ci sia un luogo dove chiunque può immettere senza paletto alcuno i suoi file audiovideo? Non c’è il rischio che, oltre a gettare luce su quello che avviene, questo boom di contenuti dal basso provochi forme di esibizionismo ed emulazione tutt’altro che auspicabili (tipo: si mena il coetaneo disabile o si molesta la compagna proprio per mettere poi il video in Internet)? Uno studioso di Rete come Vittorio Zambardino, nel suo blog su Repubblica.it, prende le distanze “da tutti gli ultrà” (compresi quelli del Web anarchico), ma si chiede anche: “Il video shock del ragazzo down, al di là delle intenzioni di chi lo ha realizzato e pubblicato, non è stato forse un contributo alla verità?”.

La risposta è ovviamente positiva e fa venire in mente che su YouTube, Flickr e similia sono finite ben altre immagini di denuncia, dalle torture di Abu Grahib ai pestaggi della polizia losangelina. E i rischi di emulazione o esibizionismo? Per Granieri sono un falso problema: “Se un ragazzo ha un’idea della vita che contempla le percosse a un compagno disabile, esprime quei ‘valori’. Il problema non è che li esprime, il problema è che ce li ha. Attraverso la sua espressione, anzi, ci permette di intervenire. Lo stesso per alcuni gruppi islamisti, per le frange violente di tifosi, per i pedofili. Che esistevano da sempre, ma da quando sono diventati un problema sociale? Da quando riusciamo a intervenire? Da quando affiorano in Internet”, conclude Granieri.

Anche in Rete, però, si discute sull’ansia da protagonismo generata dai video amatoriali sul Web. E ci si scherza su: nel popolare sito Macchianera.net, ad esempio, è apparsa una vignetta in cui un ragazzo – una pistola in una mano e una videocam nell’altra – si spara alla tempia dicendo: “Speriamo che mi mettano su YouTube…”.

Insomma, il video dei quattro gradassi piemontesi ha imposto una riflessione sugli effetti dei nuovi media, con le loro potenzialità e i loro rischi. E intanto quelli di Google cercano di uscire dalla tempesta che li ha coinvolti. I due indagati, Drummond e De Los Reyes, se ne stanno zitti zitti in California, mentre a Milano i dirigenti parlano di “continua collaborazione con le autorità“.

Informalmente fanno sapere che a Mountain View è allo studio un nuovo software – il cui funzionamento è ancora segreto – in grado di segnalare eventuali immagini violente agli amministratori del sito, in modo che questi possano intervenire subito e toglierlo. Uno scenario che fa pensare a un futuro in cui i clip ‘proibiti’ saranno emarginati dai siti più grossi (quelli di corporation quotate in Borsa) per continuare a circolare in forma più o meno mascherata nello smisurato sottobosco di Internet, tra indirizzi mutanti su server irrintracciabili o quasi. Che poi questo sia un bene o un male per la Rete e per la società, è ancora tutto da vedere.

Commenti personali.

Prima di tutto dico una probabile ovvietà, ovvero che la nostra normativa al riguardo è parecchio arretrata. Anzi, si può tranquillamente dire che esiste un vuoto normativo. E non si possono, a mio avviso, estendere per analogia le disposizioni sui ‘reati commessi con il mezzo della stampa periodica’. Sarebbe opportuno un intervento ad hoc, i direttori della carta stampata, in effetti, non hanno tutti i torti a lamentarsi dell’imperseguibilità del proprietario di un sito web. Ma è anche vero che non si può procedere mediante un’equiparazione pura e semplice dato che le problematiche che possono sorgere con l’uso del mezzo informatico sono estremamente diverse da quelle derivanti dall’uso della stampa o della televisione. Basti pensare alla “democraticità” di Internet, contrapposta al “dispotismo” degli altri mezzi di comunicazione. Non si può parlare di omesso controllo per Internet perché un conto è fornire i mezzi necessari per uploadare file o per consentire l’apertura di siti o blog, un altro è concorrere nella commissione di reati. Se, per esempio, non è realistico pensare che si possano pubblicare su un giornale articoli dal contenuto diffamatorio senza che il Direttore dello stesso ne venga a conoscenza (o possa comunque venirne a conoscenza), è invece estremamente realistico pensare che in Internet ciò possa avvenire e avvenga di continuo. Il caso del video messo in rete dai ‘bulli’ torinesi che pestavano il ragazzo disabile è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare. Ma si può davvero pensare di ricondurre una qualche responsabilità agli amministratori di Google Italia? Non credo che la risposta possa essere positiva… La responsabilità penale è personale e i casi di responsabilità oggettiva sono da escludere, tuttavia mi sembra che, continuando su una certa linea, si sarebbe di fronte ad ipotesi di responsabilità oggettiva mascherata. Chiunque può immettere sul Web i propri contenuti e ognuno dovrebbe esserne personalmente responsabile. Ha agito bene, quindi, la Corte Suprema della California che ha assolto una blogger di San Diego (e con lei il suo Internet provider) per una diffamazione in un commento a un post: la responsabilità penale, ha sancito la corte, è solo di chi immette i contenuti, e non di chi offre i mezzi per la loro pubblicazione. Condivido pienamente: la responsabilità penale dovrebbe essere solo ed esclusivamente di chi immette i contenuti e non di chi offre i mezzi per la loro pubblicazione. E non potrebbe essere altrimenti, a meno di non voler oggettivamente (a prescindere dal dolo e dalla colpa, quindi) imputare la responsabilità penale ad altri soggetti (quali i proprietari o gestori dei siti… forse perché più facilmente identificabili?). Per lo meno, questo è il mio pensiero. Auspico quindi che il Parlamento intervenga al più presto in materia, magari avvalendosi anche di consulenti che abbiano competenze tecniche specifiche… Noto infatti che uno dei problemi principali della nostra legislazione (soprattutto in certi ambiti) è che nasce già “vecchia” perché non tiene in debito conto dei continui mutamenti sociali e tecnologici.

Per finire, una curiosità. La recente sentenza del tribunale di Aosta, che ha equiparato ai direttori anche i titolari di blog, dovrebbe riferirsi a questo blog politico, il cui proprietario è stato condannato a 10.000 euro di multa per diffamazione: Bolscevico stanco. L’uomo in questione si chiama Roberto Mancini ed è l’ex presidente dell’Ordine dei giornalisti della Valle d’Aosta (in carica per sei anni). E’ stato sospettato di aver firmato dei post con lo pseudonimo di Generale Zhukov attaccando, con parole molto sopra le righe, dei personaggi locali (in particolare politici).

Mussi: “Troppe lauree honoris causa”

E finalmente, come da me auspicato da parecchio tempo, il ministro dell’università e della ricerca ha messo un freno alle lauree honoris causa! Ovvero alle lauree elargite ad attori, cantanti, sportivi, ecc. senza alcun motivo se non quello del ritorno di immagine per il “dottore” e per l’università, che in questo modo cerca di risollevarsi da una situazione economica pietosa (il denaro pubblico destinato in Italia all’università e alla ricerca è nettamente inferiore alla media europea… spero che il ministro Mussi riesca ad invertire la rotta anche in questo caso!!). E’ divertente che un grandissimo cantante come Vasco Rossi, per esempio, potrebbe leggitimamente tentare la strada della libera professione legale! Tempo fa, era stata offerta una laurea di questo genere anche a Fiorello che, però, pare aver rifiutato per il troppo rispetto nei confronti di chi studia davvero… Bravo!!Moltissimi non se ne sono invece preoccupati e se per alcuni la laurea honoris causa era davvero giustificata (per esempio per il Nobel per la letteratura Dario Fo o per il fondatore di Emergency Gino Strada), per altri il riconoscimento era a dir poco insensato. Non è un mistero che per le università sia diventato spesso un fatto di marketing.

Dal Corriere della sera: alcune Università, specie le più piccole e le più nuove, contano molto sui nomi noti: dal premio Nobel Dario Fo, a Piero Angela plurilaureato honoris causa, da Lucio Dalla a Silvio Berlusconi, da Antonio Fazio a Carlo Azeglio Ciampi, da Giulio Andreotti a Francesco Cossiga (premiatissimi in Italia e all’estero). Ci sono invece Atenei più grandi come la Sapienza di Roma che si sono dati un limite: tre-quattro lauree ad honorem all’anno. La prossima sarà al presidente della Commissione Ue Josè Barroso. Gli scambi di cortesie internazionali sono all’ordine del giorno: anche il ministro dell’Università Fabio Mussi è stato appena insignito di un titolo all’Università di Canton in Cina. Ma nel panorama delle lauree per meriti eccezionali c’è davvero un po’ di tutto: persino il cantante Franco Califano ha avuto l’onore di una laurea honoris causa, non in Italia ma a New York, per aver scritto «Tutto il resto è noia». Lui stesso ha qualche dubbio: «Ho dovuto scrivere una tesina di cento pagine e mi hanno fatto anche delle domande. Qui in Italia viene assegnata per dare lustro all’Università senza motivazione serie. Non è sbagliato limitarne l’assegnazione. Ed infatti, alla centesima laurea honoris causa, assegnata in soli sei mesi di governo, il ministro Fabio Mussi si è convinto che, anche rispettando l’autonomia delle Università, era ora di dare un segnale. E così, dopo aver firmato il via libera per le ultime venti richieste, tra le quali quella di conferire la laurea magistrale in medicina al fondatore di Emergency, l’oltranzista del pacifismo Gino Strada, bloccata tre anni fa dall’allora ministro Letizia Moratti, Mussi ha inviato una lettera ai rettori per chiedere «un’accurata valutazione dei soggetti interessati affinché siano effettivamente in possesso dei requisiti di eccezionalità previsti dalla legge». Si tratta di un vero e proprio «atto di indirizzo» agli Atenei italiani nell’intento di «salvaguardare il titolo accademico, equiparato a quello ottenuto normalmente».

Va bene che gli atenei fanno attività di p.r. scegliendo personaggi famosi e ricompensando con il pezzo di carta i propri sponsor o benefattori… Ma si stava proprio esagerando, arrivare a conferire 100 titoli nel giro di 6 mesi è effettivamente troppo. Il ministro teme che, in questo modo, il titolo accademico venga svalutato. Timore fondato, basti pensare che la considerazione per il famoso pezzo di carta è già bassina e non sempre a torto… In effetti, università e lavoro corrono su binari paralleli. La preparazione fornita dalle nostre università è di stampo prettamente teorico e difficilmente è utile per l’inserimento nel mondo del lavoro. Però è anche vero che in Italia la percentuale della popolazione, di età compresa tra i 25 e i 44 anni in possesso di un titolo di studio universitario è solo del 11,5% (fonte OCSE). Tra le più basse in Europa. Nonostante questo, i nostri Dottori faticano a trovare lavori retribuiti. Il mondo lavorativo non sa che farsene di persone laureate. Più che la formazione, contano le relazioni sociali… Insomma, pare trattarsi di circolo vizioso e sarebbe opportuno che si intervenisse alla radice… Comunque sia, un primo passo (anche se piccolo), è stato fatto. Forse ci saranno ancora meno laureati, ma tanto i titoli fittizi sono inutili e dannosi e quindi non ne sentiremo di certo la mancanza.