Covid

Di notte, quando mi sveglio e inizio a pensare, mi verrebbe voglia di iniziare a scrivere per cercare di fissare meglio questi pensieri, poi per non disturbare nessuno o svegliare la famiglia (e qui ci faccio rientrare anche i gatti e il cane) evito. Capita che resti sveglio anche in piena notte per 2 o 3 ore, a pensare un po’ di tutto, e quando le tematiche si fanno impegnative, so già che riprendere sonno sarà un’impresa!

Così è successo ieri sera, ho guardato l’ora sulla radio sveglia digitale che segnalava le 3:33, già un’orario particolare, e anche se non sono troppo superstizioso, mi ha dato l’input per attivare ulteriormente la mente…

Sono in isolamento da Covid dal pomeriggio del 24 febbraio, quindi ad oggi sono 23 giorni che io e la mia famiglia non usciamo di casa… Anzi, per la verità mia figlia Adele di 8 anni ha ripreso ad andare a scuola da un paio di giorni visto che all’ultimo controllo tampone è risultata negativa. Per me, mia moglie e mio figlio si deciderà tutto questo lunedì… Doveva essere domenica come ribadito da 3 operatori Ausl o chi x loro in 3 telefonate diverse, ma ieri ci hanno chiamato per spostarlo a lunedì perchè di domenica il Drive-in è chiuso…

E’ proprio tutta questa disorganizzazione a mandarmi il tilt… Mia moglie è sempre risultata negativa eppure la tengono a casa, per il tampone di domenica, mi hanno telefonato giorni addietro in 3 confermandomi la data mentre ieri pomeriggio la nuova operatrice mi avvisa invece che l’appuntamento era spostato a lunedì… Ma chi mi ha chiamato prima, non sapeva che di domenica i controlli non ci sono?? Ma sarà mai sensato che ieri sera all’ennesima telefonata che invece ha ricevuto mia moglie l’operatrice cercava Diego (mio figlio di 10 anni) che voleva avvisarlo anche a lui che il tampone non era più domenica ma lunedì?!? Veramente voleva spiegare questa cosa a un bambino di 10 anni e non ai suoi genitori?? Mia moglie fa presente che lei era la madre, che mio figlio non aveva un cellulare e che comunque sapeva già dello spostamento del tampone perchè nel pomeriggio avevano appunto già chiamato ME per avvisarmi. Posa il telefono e dopo un minuto la richiama LA STESSA operatrice che voleva parlare con Tarditi Irene per spiegare dello spostamento tampone…. incredibile!

Quello che mi dispiace, quello che mi demoralizza, è che sono convinto che tutti questi problemi, tutti questi disguidi nascono da una gestione disorganizzata e pessima della struttura informatica, mi immagino l’operatrice (poveraccia che alle 19:30 era ancora al lavoro) che avrà avuto un elenco sotto mano di nominativi risultati positivi al tampone da chiamare con numero di telefono e via… Non ci sarà stato nessun riferimento all’età della persona che stava chiamando a quale nucleo famigliare appartemeva, quanti tamponi aveva già fatto, ecc…

Non che io sia un genio dell’informatica, anzi… ormai la fatica a sviscerare un software in tutte le sue opzioni è parecchia… però cavoli…. MA QUANTI MILIONI girano intorno al Corona Virus, quanti programmi ci saranno dietro?!? Possibile che sembra tutto così campato in aria?!? Che un semplice riavvio di un PC o un’assenza di rete, possa far risultare tutti quanti i referti positivi?!? Aosta sera

Felicità e dintorni

Sto leggendo un libro un po’ “strano”, che parla di Tantra e piacere sessuale, diciamo un libro po’ fuori dalle righe per i più… ma che me frega, io sono orientato sul meno… ok dai… Comunque è una sensazione seria la mia, in questo libro mi sto ritrovando parecchio in certi capitoli, sono solo all’inizio, ma questo paragrafo mi ha lasciato molto a pensare, lo riporto qui sotto, non credo di violare nessun copyright visto che è comunque scaricabile gratuitamente dal sito stesso degli autori qui:

Luna d’Inverno

Il primo strato dell’io che incontriamo, in inglese è chiamato agency – che significa sia “impulso ad agire”, sia “mediazione”, sia anche “agenzia”, e quest’ultimo significato è quello più efficace nel caso nostro, poiché il primo strato dell’io è quella modalità per cui una persona non vive “in proprio”, ma vive per conto di qualcun altro, esattamente come un agente non opera professionalmente per sé, ma per conto di un committente.
L’agency è quella componente di noi in cui abbiamo imparato, fin da piccoli, che possiamo venir amati soltanto se prima ci preoccupiamo degli altri e facciamo qualcosa per loro – per i genitori, per i fratelli, per gli amici e così via. Diventato adulto, l’agent – colui cioè in cui predomina I’agency – è una persona molto amichevole, sempre pronto a aiutare gli altri; è anzi molto “sintonizzato” sugli altri, infatti una sua frase tipica è: se stai bene tu, sto bene anch’io; se tu stai male, soffro con te.

Quando alla fine di una cena nel vassoio rimane un solo pasticcino, l’invitato agent, prima di prenderlo, chiederà sempre a tutti quanti se lo vogliono loro, nella speranza che nessuno lo voglia. Se qualcuno dice di sì, glielo lascerà con un sorriso, ma dentro di sé proverà stizza. In questo modo, adottando sempre comportamenti simili, l’agent accumula un bel po’ di rabbia e rancore nell’arco della vita, e siccome è convinto che gli altri lo amino e lo stimino soltanto quando è gentile, non mostra mai quei sentimenti, ma deve isolarsi ogni tanto per “riprendere l’equilibrio”.

Un altro esempio? Agent è la tipica donna-madre:
Sono sposata da quindici anni. La famiglia per me è tutto e ho sempre cercato di fare tutto per i bambini e per mio marito, cucinare, pulire la casa, educare bene i miei figli. Non ho mai pensato a me stessa in tutto questo periodo, fino a quando il mio matrimonio è entrato in crisi. Credevo di non essere più affascinante per mio marito, ma la verità era che io non c’ero più, esistevo solo in quanto mi occupavo degli altri e praticamente avevo perso me stessa. Allora come poteva mio marito amare una donna che non c’era più?”. Se l’agent una volta fa qualcosa per sé – il che avviene di rado – viene subito assalito dai sensi di colpa.

Immaginiamo questa scenetta: sulla spiaggia strapiena di Riccione arrivano contemporaneamente un agent e un’altra persona che lui non conosce. È rimasto solo l’ultimo ombrellone. L’agent normalmente avrebbe detto “lo prenda lei”, ma questa volta, non si sa perché, pensa a se stesso, accelera il passo e occupa ombrellone e sdraio. Ovviamente non osa guardare in faccia la persona che ha perso la corsa, e probabilmente passerà una giornata d’inferno sotto l’ombrellone, tormentato da rimorsi perché il suo bisogno ha prevalso a danno di quello di un altro. L’agent chiama il suo comportamento gentilezza o amore o compassione. In verità è, soltanto, bisogno: il bisogno di essere amato, accompagnato dalla convinzione che per essere amato occorra prima fare qualcosa per l’altra persona. Per l’agent è inconcepibile stare bene con se stesso da solo, o con un altro individuo senza fare qualcosa per lui. Se non c’è nessuno di cui l’agent si possa preoccupare, si apre un grande vuoto, un grande punto interrogativo, non sa più cosa fare della sua vita. Chi ama qualcuno può sempre scegliere se insistere o cedere in un conflitto di interessi, ma l’agent non ha questa scelta: senza esserne consapevole favorisce sempre l’altro, si subordina all’altro per automatismo. La sua motivazione profonda è la ricerca di contatto, di amore; ma l’agent non riesce a immaginare di poter amare se stesso, è sempre rivolto all’esterno. L’unica strategia che conosce è quella di aiutare. Il prezzo che l’agent paga è tuttavia molto alto, e spesso si fa notare verso la metà della vita, quando le forze diminuiscono e ci si rende conto di essere letteralmente esauriti. L’energia segue l’attenzione – (è una legge fondamentale), e se la nostra attenzione è continuamente rivolta agli altri, la nostra energia si riversa su di loro e il nostro corpo ne risente.

Così l’agent è poco consapevole di quello che succede in lui, dei suoi giudizi, dei suoi pensieri, delle sue sensazioni, della sua sessualità, del suo benessere. In fondo si stima poco, perché altrimenti non sarebbe così dipendente dal suo partner, e penserebbe di meritarsi il suo amore per quello che egli è, e non per quello che fa. Una persona poco attenta a sé e poco centrata in se stessa col tempo perde il suo fascino, la sua radiazione, la sua dignità e quel poco che gli è rimasto della stima del partner. È il partner continua a rimanere più per comodità, che per vero amore e vera attrazione. A questo punto la coppia può entrare in un circolo veramente tragico. Prendiamo l’esempio classico di una donna che da buon agent ha vissuto esclusivamente per la famiglia, si è trascurata ed è giunta al momento in cui i figli ormai grandi vanno via di casa. L’agent, quando perde le “vittime” delle sue cure, va in crisi, al vuoto delle domande esistenziali si aggiunge ben presto una piccola depressione, e il marito comincia a frequentare un’altra. La strategia dell’agent – di occuparsi del partner per ottenere il suo amore – ha anche un lato oscuro che nessuno guarda volentieri: per assicurarsi l’amore del partner, l’agent lo aiuta sempre dove può, ma al contempo non gli permette di crescere più di tanto, perché altrimenti il partner potrebbe diventare autosufficiente e “liberarsi”. Quindi, oltre a preoccuparsi di “stabilizzarlo”, si preoccupa di non rafforzarlo troppo: perciò quando il partner sta veramente bene, l’agent inconsciamente cova un conflitto, e mira a destabilizzarlo al solo scopo di poterlo poi recuperare. Questo gioco logorante può durare molto a lungo, anche un’intera vita. Questa è un’altra caratteristica che distingue l’agency dall’amore.

L’effetto forse più tragico dell’agency è che il proprio corpo col tempo diventa totalmente sordo e la sensualità svanisce, perché l’attenzione non è focalizzata al proprio corpo ma è sempre rivolta all’esterno. Il sesso diventa sempre più raro, perché se l’attenzione non è focalizzata sul proprio corpo, non è possibile aumentare il grado di carica energetica o di eccitazione. Invece la sessualità dell’agent è più collegata alla paura che al piacere: l’agent donna si preoccupa di far ciò che piace al partner e l’agent uomo si preoccupa dell’orgasmo di lei. Nella sessualità l’agent – donna o uomo – difficilmente riesce a sapere ciò che desidera, di cosa ha bisogno per sentirsi bene e per eccitarsi, per seguire i propri istinti. Inoltre pensa che, se esprimesse i suoi desideri erotici, il partner non sarebbe disposto a soddisfarli se non in cambio di qualcos’altro. La maggior parte dei disturbi sessuali ha l’agency come causa. Questa diagnosi vale sia per la disfunzione erettile (impotenza) o per l’eiaculazione precoce nell’uomo, come per il disturbo del desiderio (frigidità) o la difficoltà ad arrivare all’orgasmo nella donna.

Quando in una coppia ambedue sono in agency, succede quello che descrive Marco, un infermiere di 48 anni: Quando facevo l’amore con la mia compagna ero sempre attento a quello che le piaceva e soprattutto dopo il rapporto la tempestavo di domande: ti è piaciuto? Sei arrivata all’orgasmo? Oppure la accarezzavo così come avrei voluto essere accarezzato io, pensando: se sei soddisfatta tu, lo sono anch’io. Anche lei d’altra parte era molto attenta ai miei bisogni e per anni credevamo entrambi di essere una coppia felice e armoniosa, senza accorgerci che il sesso diventava sempre più raro tra noi e che la passione si stava spegnendo. Questa diagnosi non sarebbe completa se non aggiungessimo che chiunque, se vuole, può uscire dalla condizione di agent. L’agency non è un’eredità genetica, non appartiene biologicamente alla nostra personalità, non è il nostro autentico carattere: è solo una modalità di percepire i propri desideri e quelli degli altri; noi l’abbiamo imparata e spesso, impiegandola, siamo stati addirittura premiati e ciò ci ha condizionato; ma si può anche “disimpararla” per ritrovare un maggior senso nella propria esistenza e scoprire il piacere nel proprio corpo. Il rimedio non sta nel diventare egoisti, ma nel riconoscere la semplice verità che in fondo possiamo provare piacere soltanto grazie al nostro corpo, possiamo provare amore soltanto nel nostro cuore e raggiungere l’orgasmo soltanto nei nostri genitali. Occorre capire che il miglior dono che possiamo fare al nostro partner è quello di curare la nostra vitalità e di accrescere la nostra autostima, per essere una persona vitale e degna di autentica stima anche per lui.

Ma come può avvenire questo cambiamento? Nel momento in cui l’agent si accorge di essere tale e gli vengono i primi dubbi, di solito prova anche il desiderio di cambiare e di vivere più per sé. Dopo la scoperta, «la prima reazione che si ha istintivamente è quella che chiamiamo counteragency: ci si comporta cioè in maniera opposta rispetto a prima, e si crede di non essere più in agency.» [15]. Invece questo nuovo atteggiamento non è ancora la risoluzione, ma solo una fase di passaggio.

15 – Jack Lee Rosenberg Beverly KitaenMorse, The Intimate Couple, Atlanta 1996, p.203.

Il corretto punto di arrivo è uno soltanto: quello in cui diventiamo consapevoli dei nostri bisogni, percependo anche quelli degli altri. Solo quando si riesce a valutare e scegliere “tra i miei e i suoi” bisogni, possiamo decidere in modo sano e creativo: “oggi farò qualcosa in più per me e la prossima volta farò di più per te”, tenendo sempre presente l’obiettivo di soddisfare i bisogni di entrambi. Qualche conseguenza è ovviamente inevitabile. Quando ci si libera dal condizionamento dell’agency, può succedere che gli amici che prima ci stimavano perché ci curavamo di loro, ci accusino di egoismo. C’è un solo modo di reagire: spiegare tutto con chiarezza. Poiché l’agency è una sindrome molto diffusa, molti lo troveranno un passo coraggioso, e ne trarranno forse un prezioso insegnamento.

—————-EDIT——————–

Chiaccherando con Irene ieri sera, mi ha fatto ragionare un po’ meglio su queste “questioni”. Il paragrafo qui sopra, mi ha toccato e l’ho sentito “mio”, ma non perchè io mi sento un buon samaritano, non mi reputo un eroe nè tanto meno un santo, anzi… però sulla faccenda ultimo pasticcino e ultimo posto sotto l’ombrellone sì, non c’è dubbio che avrei lasciato sia uno che l’altro, ma analizzando bene del perchè, soprattutto sul posto sotto l’ombrellone, l’avrei fatto per evitare questioni.
Ho sempre, SEMPRE cercato di evitare polemiche o questioni fin da bambino, non mi è mai piaciuto discutere, odiavo gli attaccabrighe e mi tenevo ben distante da gente “rognosa”, non ho mai avuto grandi certezze nemmeno in adolescenza e quindi quando parlavo con qualcuno, era facile, molto facile che per empatia, per quieto vivere, per essere “gentile”, valutavo come “buone” le informazioni che ricevevo, senza praticamente mai (o quasi) dire la mia.

Mi rendo conto non essere una gran caratteristica di cui andare fiero, anzi… Ora però che di anni ne ho 43 e di “esperienze” di vita ne ho un po’ di più, inizio a dire anch’io il mio punto di vista come in questo caso.